Di don Lorenzo Celi
Direttore Ufficio diocesano di pastorale dell’educazione e della scuola

Animatore spirituale dell’Istituto Barbarigo

Ora di lezione al Barbarigo

Foto di Giorgio Boato

Fra pochi giorni nel nostro Paese riapriranno le scuole ma già da settimane imperversano le immancabili polemiche che accompagnano ogni settembre, simili ai violenti temporali di fine estate: ricorsi per concorsi non vinti, cattedre scoperte, lamentele di dirigenti scolastici costretti alla bilocazione dall’assegnazione delle reggenze, Uffici scolastici territoriali e regionali oberati da infinite pratiche, famiglie in rivolta per il costo dei testi (si usano ancora i libri?) e del materiale scolastico, collegi docenti in cui non  mancano gli scontri inaugurali tra dirigenti e professori e tra i colleghi delle diverse fazioni, personale di segreteria che già si dichiara stanco e lamenta un ambiente difficile se non invivibile…

Per non parlare degli utenti del servizio scuola – così si chiamano ormai studenti e famiglie – gli uni (e sono gli unici che si possono comprendere) “scocciati” da questo tempo di vacanza che sembra tanto lontano mentre lo aspetti e poi ti fa lo scherzo di riportarti già sui banchi; gli altri inorriditi al pensiero di dover accompagnare a scuola di nuovo i propri figli, sfidando il traffico cittadino e guerreggiando contro le lancette dell’orologio o peggio ancora contro professori incoscienti e incapaci di comprendere il proprio pargolo geniale e per questo un po’ irrequieto.

Ma perché tanta negatività intorno alla scuola? Perché quando si parla di essa il sorriso scompare e il viso si rabbuia? Cosa è venuto a mancare a quello che rappresenta uno dei luoghi antropologici e sociologici più significativi che segnano la vita di ciascuno di noi?

Io temo che la scuola si sia buscata le malattie di cui è afflitta tutta la nostra società, che mi sento di racchiudere in una espressione di sintesi che a molti potrà sembrare banale ma che per me rimane tragica: la perdita del senso di comunità. Da sempre è stato chiaro che l’educazione  è un’azione che richiede una comunità entro la quale svolgere il percorso educativo, perché il singolo assume consapevolezza di sé solamente all’interno di un contesto plurale nel quale l’io si incontra con il tu e da cui nasce la consapevolezza del noi.

Perdere la dimensione comunitaria, sociale, “politica” della scuola significa impoverirne il significato, svilirne la funzione e abbandonare la possibilità di trasmettere non mere nozioni o “competenze” (come si usa dire oggi nel gergo) ma valori, cioè principi condivisi in cui un insieme di persone si riconosce e che considera fondativi del proprio stare insieme.

Un discorso siffatto potrebbe infastidire chi ritiene che l’educazione debba essere quanto più neutra possibile, un semplice predisporre le condizioni affinché ognuno possa affermare se stesso e le sue idee.

Buon anno scolastico e, almeno per un giorno, provate a guardare alla nostra scuola con l’occhio e lo stato d’animo del vostro primo giorno

Per fortuna ci vengono in soccorso i grandi pedagogisti e tutta la tradizione personalista su cui si fonda la nostra Costituzione, rammentandoci che l’educare non può mai essere neutro perché fondato su quel circolo ermeneutico che ha come base almeno un primo nucleo di socialità costituita da docente e discente in dialogo fra loro.

Una scuola che nega l’esistenza dei valori, quei valori che scaturiscono dalla grammatica dell’umano e, attraverso la sintassi dei principi che normano il vivere quotidiano, rendono possibile la libertà di tutti costruendo la polis, non può che essere una scuola senza valore, triste, dove da entrambe le parti l’unica dimensione esistenziale percepibile diventa la noia, preludio ai tanti atti vigliacchi di bullismo e violenza di cui si riempiono le cronache.

Una scuola dove manca l’entusiasmo della ricerca, dove l’immobilismo prende il posto della dinamica del progresso dell’apprendimento, dove la sciatteria personale e degli ambienti spiazza la cura di sé e della casa comune, non può dirsi tale. Oggi, per correre ai ripari, occorre una vera rivoluzione in cui ciascuno assuma consapevolezza del proprio essere parte di un tutto più grande e accetti di dialogare con l’altro, abbia il coraggio del confronto e ripudi la codardia del rifiuto e dell’emarginazione, senta il bisogno dell’altro e si tenga lontano dalle fughe solipsistiche che conducono all’isolamento nichilista.

Una scuola di valore è una scuola che sa far apprezzare i valori della vita, della verità cercata insieme, della libertà “con” che diventa libertà “per” e apre all’orizzonte della scoperta del proprio posto in questa grande famiglia umana che ha bisogno di ritrovarsi per non perdere le radici del passato e non negarsi l’alba del futuro, condannandosi a un tramonto nel presente.

Dopo cinquant’anni dalla rivoluzione del 1968 che ha destrutturizzato tanti luoghi sociali come la scuola, tentiamo la rivoluzione culturale di ripensarci comunità e osiamo nuove vie, nuove strade anche nella scuola affinché bambini, ragazzi e giovani ritrovino il sapore del sapere e la gioia di spenderlo perché altri possano beneficiarne.

Articolo tratto dalla Difesa del popolo del 10 settembre 2018